Il cammino (lungo) verso la parità, l’uguaglianza, l’equità tra i sessi

Nei 75 anni di storia repubblicana, le donne hanno sempre ricoperto un ruolo che, per quanto minoritario, è stato determinante nelle riforme che miravano alla parità di genere, all’abbattimento delle barriere della discriminazione.

Fin dall’approvazione dell’articolo 3 della Costituzione, che mette l’uguaglianza tra i sessi tra i valori fondanti della Repubblica, le donne (in quel caso le 21 deputate dell’Assemblea costituente) hanno impresso alle riforme quella spinta propulsiva che ha portato a traguardi allora inaspettati.

Un cammino lungo e difficile, quello compiuto in questi 75 anni, e la strada per risalire la china sarà ancora decisamente in salita, alla luce anche dei recenti tentativi messi in atto in diversi angoli del pianeta di rimettere in discussione diritti dati per acquisiti come quello allo studio, all’autodeterminazione, alla maternità consapevole.

In un recente rapporto di genere, l’Ufficio Valutazione Impatto del Senato della Repubblica ha messo in fila cronologicamente le tappe che hanno segnato il cammino delle donne in Italia verso la parità e l’uguaglianza.

Analizzando i passaggi legislativi, giuridici e i (spesso aspri) confronti politici, la ricerca si è indirizzata su alcuni macro-temi, che fissano alcuni paletti nei cambiamenti sociali e culturali del paese: dal lavoro all’accesso alle cariche elettive, dalla famiglia alla sessualità, alla maternità.

MADRI AL LAVORO

“L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”: ma dall’entrata in vigore della costituzione che sancisce questo valore fondamentale (assieme al citato art.3 sull’uguaglianza tra i sessi e all’art. 37 che sancisce che “la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”) il pieno rispetto delle norme ancora non si è raggiunto. Ancor oggi il “gap” nelle retribuzioni tra uomo e donna, a parità di mansioni, è in media del 15% in meno, con il divario che si allarga all’aumentare delle responsabilità, arrivando, per alcune cariche apicali, anche al 30%.

La prima legge in favore delle donne è del 1950, approvata su impulso delle donne parlamentari e riguardante la “tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri”: divieto di licenziamento dall’inizio della gravidanza al compimento del primo anno di vita del figlio, divieto di adibire donne incinte a lavori pesanti, divieto di adibire al lavoro donne negli ultimi tre mesi di gravidanza. Tutele in larga parte ancor oggi valide. Una legge che rappresenta un gran passo in avanti per le lavoratrici, ma che tagliava fuori ancora un’ampia fetta di società, dalle casalinghe alle lavoratrici agricole. Per queste ultime si dovranno aspettare altri 13 anni, fino al 1963, anno in cui viene votata la legge che vieta il licenziamento in conseguenza del matrimonio e introduce misure concrete a sostegno della maternità delle agricoltrici.

Sempre nel 1963 si riconosce il valore sociale delle casalinghe, istituendo un fondo volontario a gestione separata dell’INPS per la pensione delle donne che si dedicano all’accudimento della famiglia. Nel 1999 questo lavoro di cura viene ulteriormente riconosciuto istituendo l’assicurazione obbligatoria Inail per tutti coloro (uomini o donne finalmente trattati alla pari) che svolgono in modo esclusivo il lavoro domestico per la propria famiglia.

Altro tema cruciale per il raggiungimento dell’uguaglianza nello svolgimento di un’attività è la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. È alla fine degli anni ’80 che cambia la percezione di famiglia, con la donna sempre più in una posizione autonoma, socialmente ed economicamente. In un quadro culturale che sta cambiando, muta anche il concetto di genitorialità: non è più solo alla donna che si chiede di accudire i figli e la famiglia. Il primo passo verso la parità viene mosso nel 1987, con una sentenza della Suprema Corte che dichiara incostituzionale il riconoscimento del diritto all’astensione dal lavoro per accudire un figlio alla sola madre lavoratrice, e non anche al padre. La norma viene via via definita, assegnando ai genitori ruoli sempre più paritari, fino al cosiddetto Jobs Act, che sancisce definitivamente il riconoscimento del congedo di paternità e l’estensione del congedo parentale fino al dodicesimo anno di vita dei figli.

DAL DIVIETO DI ACCESSO AL DIVIETO DI DISCRIMINAZIONE

Per quasi un decennio dalla nascita della Repubblica è persistito il divieto, per le donne, di accesso ad alcune carriere lavorative, ritenute prettamente maschili. È solo dal 1956 che alle donne è consentito diventare magistrate perché era opinione comune che per la loro sensibilità (il “gentil sesso”) non fossero adatte a sopportare “racconti truci e tristi” o addirittura fossero geneticamente meno intelligenti degli uomini. L’accesso alla carriera in magistratura aprirà le porte anche ad altre attività e cariche pubbliche: nel 1963 cade il divieto per tutti gli incarichi pubblici e politici, nel 1981 quello di entrata nel corpo della Polizia di Stato, abolendo il Corpo di polizia femminile. Dal 1999 le donne possono essere reclutate nelle Forze armate e nella Guardia di Finanza.

Le donne, in questi tre quarti di secolo, hanno dovuto combattere anche contro la ghettizzazione in alcuni ambiti lavorativi. Se si riteneva, infatti, esistessero incarichi prettamente maschili, era altrettanto comune considerare che il ruolo di insegnanti o educatori di scuola dell’infanzia fosse destinato alle sole donne. Il cammino verso la parità, grazie alle battaglie condotte dalle donne, ha abbattuto una barriera discriminatoria anche nei confronti degli uomini. Ed è con una sentenza della Corte costituzionale del 1983 che si è dichiarata l’illegittimità della norma che escludeva i candidati maschi dalla frequenza della scuola magistrale e relativi esami di abilitazione all’insegnamento. Nel 1990 cade nelle scuole anche la distinzione di “maschile” e “femminile” per le classi di educazione fisica.

La parità di inquadramento e ruoli procede lentamente, con provvedimenti che si susseguono di trent’anni in trent’anni. Nel 1977 (ancora grazie a una donna, la Ministra del Lavoro Tina Anselmi) viene rimossa ogni forma di discriminazione nell’accesso al lavoro, nella formazione professionale, nelle retribuzioni e nell’attribuzione di qualifiche professionali. La piena parità (purtroppo richiamata solo sulla carta ma ben lungi dall’essere ancora raggiunta nei fatti) arriva trent’anni più tardi, nel 2003, con un decreto che ha riproposto il tema della discriminazione per sesso, non solo al momento dell’accesso al lavoro, ma per tutta la durata del rapporto di lavoro, sia nel pubblico che nel privato.

Il raggiungimento della parità di genere passa anche attraverso la tutela della privacy delle persone. La cosiddetta Legge Biagi del 2003 arriva a vietare ogni forma di indagine preselettiva per il lavoro (o il trattamento di dati personali) in base al sesso, allo stato matrimoniale o di famiglia, alla gravidanza. Viene introdotto anche il diritto al reinserimento delle donne che erano uscite dal mercato del lavoro per far fronte a compiti familiari.

Dovrà arrivare, infine, il 2018 per riconoscere l’oggettivo svantaggio anche in ambito lavorativo per le donne vittime di violenza, fino al 2021 con la ratifica nel nostro paese della Convenzione ILO-190 sull’eliminazione della violenza e delle molestie nel mondo del lavoro.

Ad accentuare le differenze di genere è arrivato anche il Covid-19, che ha evidenziato una evidente disparità di trattamento tra lavoratori e lavoratrici. Nella riduzione degli occupati legata alle misure di contenimento della pandemia, le donne sono coloro che hanno pagato il prezzo più alto. A fronte di una ripresa lenta ma decisa, l’occupazione femminile continua a rimanere al palo, non avendo ancora recuperato sui livelli pre-pandemia del 2019, rimanendo sotto la soglia del 50% di donne occupate nel Paese (49.4%).

LE GRANDI BATTAGLIE

Dal 1947 ad oggi, come abbiamo visto, sono state innumerevoli le azioni legislative che hanno portato ad un cambiamento culturale rispetto al ruolo femminile nella famiglia e nella società. Accanto alle azioni positive legate al mondo del lavoro vanno evidenziate anche quelle legate alla dignità della persona, all’autodeterminazione, alla piena responsabilità sociale.

Il primo passo significativo viene compiuto, ancora, grazie ad una donna, la senatrice Tina Merlin che promuove (e fa approvare) la legge per l’abolizione delle case di tolleranza (nel 1958) che libera 2700 donne da una attività al limite della schiavitù, benché regolata dallo Stato.

In tema di sessualità, procreazione responsabile, diritto alla maternità è del 1971 la caduta del divieto di reclamizzare o utilizzare qualsiasi mezzo contraccettivo. Nel 1975 si costituiscono i consultori familiari che introducono il concetto di assistenza alla procreazione responsabile. Nel 1978 questo aspetto di responsabilità è ulteriormente rafforzato con l’approvazione della legge sull’interruzione di gravidanza, confermata con il referendum del 1981 ma tornata al centro del dibattito politico, riacceso da chi vorrebbe fare un salto nel passato, vietandola.

Diritti e rispetto della persona passano anche attraverso quei provvedimenti che hanno abolito (era il 1981) il matrimonio riparatore, che estingueva il reato di stupro se il violentatore sposava la sua vittima, e il delitto d’onore, che prevedeva una riduzione di pena per l’omicidio di coniuge, figlia o sorella commesso in uno stato d’ira per difendere l’onore della famiglia leso dal comportamento fedifrago o carnalmente illegittimo della donna. Solo 15 anni più tardi arriva la norma che assegna ai reati sessuali lo status di delitti contro la persona e non più contro la morale.

La violenza domestica e lo stalking vengono riconosciuti come reati per il danno fisico e psicologico che arrecano alle vittime. Due distinti provvedimenti del 2001 e del 2009 introducono nel Codice penale queste forme di reato. Nel 2013 vengono approvate ulteriori misure di contrasto e prevenzione della violenza sulle donne, con l’introduzione di un’aggravante per i delitti contro la vita e l’incolumità individuale, contro la libertà personale e i maltrattamenti in famiglia, commessi anche in danno o in presenza di minori. Ulteriori aggravanti si introducono nel 2019 con il cosiddetto “codice rosso” contro i matrimoni forzati, il “revenge porn”, il reato di sfregio con lesioni permanenti al volto della vittima.

Diritti per tutti, senza distinzioni di sesso, che nel 2016 raggiungono il traguardo della regolamentazione delle unioni tra persone dello stesso sesso e delle convivenze di fatto, con il riconoscimento di forme di tutela anche per queste forme di unione civile.

CONCLUSIONI

Il cammino della parità non può dirsi ancora concluso, nonostante i tanti e grandi passi compiuti in questi ultimi 75 anni di storia repubblicana. Una corposa opportunità di progresso viene offerta oggi dall’attuazione del PNRR, dove la parità di genere rappresenta uno dei tre temi prioritari di inclusione sociale, assieme a Giovani e Mezzogiorno.

Nella promozione dell’abbattimento delle barriere di genere figurano progetti per il finanziamento di azioni volte a promuovere una maggiore partecipazione delle donne nel mercato del lavoro attraverso il sostegno a nuova occupazione e imprenditorialità, oltre al potenziamento dei servizi educativi primari e dei servizi sociali, per garantire maggiore equilibrio tra i generi, tra lavoratrici e lavoratori, potenziando il welfare in virtù di un sempre crescente diritto alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.

L’obiettivo è quello di raggiungere un incremento di almeno cinque punti nella classifica dell’indice di uguaglianza di genere dei Paesi europei redatto nel 2022 dall’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere. Nella media europea l’Italia ha un indice pari a 65; al primo posto la Svezia con 83,9 e all’ultimo la Grecia con 53,4. In dieci anni, dal 2013 al 2022, in un’Europa cresciuta mediamente di 5,5 punti, l’Italia ha incrementato di 11,7 punti l’indice del proprio livello di uguaglianza (nel 2013: media europea 63,1 e indice Italia 53,3 – nel 2022: media europea 68,6 e indice Italia 65) riducendo di oltre 8 punti il divario tra l’indice medio europeo e quello nazionale, risalendo dal 22mo al 14mo posto su 27 degli stati membri della UE.